La Linea Cadorna: inquadramento.
Il contesto storico nel quale è sorta. Studi e realizzazioni: lo scopo,i lavori, le disposizioni logistico-amministrative.
I salari, i turni di lavoro, la presenza delle donne e dei ragazzi.
Notizie sulla Linea Cadorna
70 chilometri di trincee, 88 postazioni di artiglieria, 25.000 mq di baraccamenti, 300 km di strade, 400 Km di mulattiere, gallerie, postazioni, magazzini, accantonamenti: questa è la Linea Cadorna (d’ora in poi: LC), sistema difensivo che, impropriamente, ha preso il nome del Capo di Sato maggiore dell’Esercito, generale Luigi Cadorna che ne fu il promotore. Abbiamo detto impropriamente perché nella terminologia ufficiale la Linea era denominata “Occupazione Avanzata Frontiera Nord”.
La Linea inizia a ovest in prossimità del massiccio del Monte Bianco e, dopo aver attraversato tutte le località intermedie, termina a est nelle vicinanze del Pizzo dei 3 Signori nelle Alpi Orobiche. In effetti però il tratto dalla Val d’Aosta alla Valdossola è solo «segnato» in quanto la direttrice di attacco a essa pertinente aveva un basso indice di scorrimento per cui non rappresentava un pericolo immediato.
Costruita per impedire che la Germania, violando la neutralità svizzera, irrompesse alle spalle di tutto lo schieramento italiano dallo Stelvio al mare, la LC fu realizzata in poco più di un anno. Non fu mai utilizzata: il temuto attacco non ci fu anche perché, a differenza del Belgio sacrificato sull’altare delle esigenze belliche, a nessuno interessava violare la neutralità svizzera, quadrivio europeo ove tramavano i servizi segreti delle Nazioni in lotta.
La LC, dimenticata per quasi 90 anni, ha avuto un inaspettato rilancio in questo ultimo decennio sia perché le sue opere sono sempre più percepite come testimonianze del nostro passato, sia per il loro valore architettonico, sia per la bellezza dei luoghi che esse attraversano. In altre parole, ci si è accorti di essere in presenza di un complesso di pretto stile ingegneristico-militare.
Il contesto storico
Dando per scontati i motivi che indussero i principali Stati d’Europa ad affrontarsi in una delle più sanguinose guerre mai prima di allora combattute, esaminiamo la LC nei suoi aspetti più caratteristici.
In Italia la situazione militare vedeva l’Esercito produrre il suo sforzo maggiore sul fronte orientale e, in subordine, su quello volto a nord dallo Stelvio a Pontebba; ne risultava un suo sbilanciamento a est con scarse possibilità di difesa al di qua dell’Adige. In particolare in corrispondenza del confine con la Svizzera dal Monte Bianco allo Stelvio, le cui direttrici di attacco più agevoli che lo attraversavano portavano dritte a Milano. Cadorna, paventando una possibile offensiva tedesca attraverso la Svizzera, pose mano alla pianificazione di una linea in quel settore già nel 1915, se non addirittura prima, avvalendosi degli studi del generale Porro. I lavori, iniziati nella seconda metà di quell’anno, furono accelerati dopo la Strafexpeditionsferrata dagli austro-ungaricisull’altipiano di Asiago del giugno-luglio 1916 che molto impensierì il generale e che fu contenuta a prezzo di grandi sacrifici dai nostri eroici soldati; il quadro fu reso ancor più drammatico dalla dichiarazione di guerra alla Germania avvenuta il 28 agosto 1916.
Studi e realizzazione dei lavori
Il Comando Supremo elaborò un primo progetto di linea difensiva da Domodossola a Colico. Per la sua realizzazione fu previsto l’impiego di 20.000 operai per un periodo di tre mesi. In seguito, al fine di bloccare ogni possibile aggiramento delle ali estreme (il già citato Belgio insegnava) attraverso la Val d’Aosta a ovest e le valli bergamasche a est il progetto fu ampliato fino a raggiungere le dimensioni gigantesche che oggi conosciamo; naturalmente con l’aumento anche dei tempi di realizzazione. Como e Varese ne erano i punti focali, i perni sui quali si reggeva tutto il sistema difensivo perché, una volta superata la dorsale dal San Gottardo al San Bernardino e al Passo Maloja, l’avversario poteva raggiungere la conche di Bellinzona e del Chiavennate, naturali zone di raccolta e di riordino. Da là esso poteva iniziare le successive azioni che, attraverso le vie tattiche del Varesotto e del lago di Como, adducevano alla pianura lombarda. Con quali conseguenze per l’Esercito italiano, sbilanciato a est – lo abbiamo già detto – è facile comprendere.
Nel 1916 non c’era da stare molto allegri e la Linea, approntata a tempo di primato, fu presidiata da 9 divisioni (7 di fanteria e 2 di cavalleria) e da 50 batterie di artiglieria.
Subentrata una relativa calma nel primo semestre del ’17, il confine svizzero non fu più ritenuto di primaria importanza per cui incominciarono i primi trasferimenti di truppe operative a rinforzo del fronte principale. La situazione italiana si fece gravissima dopo Caporetto (ottobre 1917) e Cadorna valutò che la paventata minaccia da nord non aveva più ragion d’essere in quanto gli austro-tedeschi avevano ottenuto nel Veneto ciò che desideravano, cioè il crollo (presunto peraltro) del nostro Esercito. Ne derivò che tutti gli effettivi disponibili schierati sulla LC furono trasferiti sulla linea del Piave, lasciando a battaglioni della Guardia di Finanza e alla Milizia territoriale la sorveglianza dei manufatti.
Alla fine della guerra tutte le opere furono abbandonate.
Lo scopo della linea
La Linea doveva sorvegliare la fascia di confine italo-svizzero, ostacolare l’ avanzata dell’avversario e guadagnare tempo fino all’ arrivo dei rinforzi. Detta così novant’anni dopo sembra cosa facile, ma c’è da chiedersi in che misura il nostro Stato Maggiore avrebbe potuto realizzare l’invio di divisioni a potenziamento dei reparti che tenevano la Linea. Infatti il logoramento imposto dalla condotta della guerra era tale che già nel 1916 vi erano grosse difficoltà di ripianamento delle perdite. Distogliere forze da un fronte «caldo» come quello dell’Isonzo per trasferirle su quello svizzero avrebbe creato una grave crisi.
Per contro il timore di un attraversamento dalla Baviera «a goccia d’acqua» a piedi (i paracadutisti non esistevano) da parte di truppe tedesche, del territorio svizzero costituito da una serie di elevate quinte montuose che culminavano nel formidabile «ridotto» del San Gottardo, sembrano eccessive. Senza contare che occorreva fare i conti con l’Esercito svizzero, piccolo ma combattivo, che difficilmente sarebbe rimasto a guardare. Unendo il tutto si può capire che la marcia a sud delle divisioni germaniche sarebbe stata lenta, penosa e sanguinosa. Vi era un’altra via di facilitazione, quella della valle dell’Inn, da Landeck in territorio austriaco e dunque amico, a Chiavenna attraverso il passo Maloja, tatticamente più scorrevole ma facilmente bloccabile a sud di S.Moritz.
Ci si permetta di dire che il timore di Cadorna era, forse, esagerato; ma tant’è, quella era la mentalità del tempo e a quella ci si doveva adeguare.
L’ ubicazione della linea
La linea era articolata in quattro settori:
– Monte Bianco (Val Ferret) – Monte Rosa;
– Monte Rosa – Verbano;
– Verbano – Ceresio;
– Ceresio – Alpi Orobiche.
I lavori e le disposizioni logistico- amministrative
L’ opera, impressionante per estensione e per complessità, richiese il contributo di 20.000 operai civili per oltre un anno sotto la direzione del Genio Militare.
La costruzione delle opere fu resa possibile dall’impegno, dal senso del dovere, dallo spirito di sacrificio degli addetti ai lavori, abituati a lavorare 10/12 ore al giorno anche in tempo di pace. Né si può sottacere l’onestà cui si improntò l’operato delle ditte civili interessate a vario titolo che, evidentemente, non bararono sui numeri e sulle forniture: la conferma ci è data dallo stato attuale di molte strutture tuttora intatte malgrado il tempo trascorso.
All’inizio del secolo scorso nelle valli lombarde vi erano poche industrie e le risorse agricole montane fornivano a malapena di che vivere. Così, l’ offerta fatta agli abitanti da parte del Ministero della Guerra di un lavoro fisso per un certo periodo di tempo venne accettata di buon grado, anche perché era stato promesso che anche le donne e i giovanetti avrebbero guadagnato qualcosa lavorando come ausiliari. Decisione peraltro imposta dal richiamo massiccio alle armi di quanti, delle classi dal 1877 al 1897 (le tre classi successive arriveranno dopo), erano in grado di imbracciare un’arma. La fornace della guerra era insaziabile tanto che furono spediti al fronte anche gli appartenenti alla seconda e alla terza categoria esentate in tempo di pace e padri di famiglia ormai attempati anche se con prole.
L’ assunzione degli operai era regolata da specifico contratto steso dal Regio Esercito. I salari erano così stabiliti:
Lire 0,30 – 0,40 l’ ora per gli operai generici
Lire 0,40 – 0,50 l’ ora per gli operai specializzati
Lire 0,60 – 1,00 l’ ora per i capisquadra
Lire 3,00 al giorno per le donne e i ragazzi.
L’ orario di lavoro era compreso tra le 6 e le 12 ore al giorno, con turnazione diurna e notturna per tutti i giorni della settimana. L’ operaio aveva l’obbligo di restare sul posto di lavoro per tutto il periodo stabilito dal contratto. In caso di inattività dovuta al maltempo aveva diritto al vitto e al 30% del salario. In caso di malattia era corrisposta l’ assistenza medica, i medicinali e il 50% del salario calcolato sulla base minima di 6 ore giornaliere.
Un lavoro prezioso fu svolto dalle donne. Esse erano reclutate dall’autorità militare nei paesi limitrofi ai cantieri per poter consentire loro di conciliare l’attività casalinga con questo nuovo impegno. Le donne erano addette al trasporto delle gerle con i materiali da costruzione dal fondovalle al luogo di utilizzo: imitavano perciò le eroiche portatrici carniche con la differenza che qui non si udiva il tuono del cannone. E’ inoltre da ricordare il contributo dato dai ragazzi, in molti casi ancora adolescenti, anche se le norme vietavano l’assunzione di soggetti di età inferiore ai 17 anni.
I materiali erano reperiti o acquistati sul posto: pietre, legname, cemento, ferro, attrezzature. Il tutto trasportato a braccia, a dorso di mulo, con carri a traino animale e con i pochissimi autoveicoli disponibili.